Maurizio e dintorni

appunti di viaggio….ma non solo

1981 – UNIONE SOVIETICA in auto

Non ricordo a chi di noi tre – io, Sergio o Emanuele – venne l’idea di trascorre le ferie di quell’anno in Unione Sovietica! Ovviamente “no alpitour”, anzi “no Italturist”, l’agenzia di viaggi contigua al Pci e specializzata nei viaggi nei paesi comunisti. Anche per quel viaggio l’avventura doveva essere un ingrediente necessario.

Ero già stato in alcuni paesi d’oltre cortina, però raggiungere la patria e il “paradiso dei lavoratori”, dove tutto era iniziato, era un’altra cosa. Un salto di qualità per cercare di conoscere meglio ciò in cui noi tre, sebbene in modi diversi, avevamo creduto (o credevamo ancora?) per un periodo della nostra gioventù.

Con Sergio avevo viaggiato nel ’76 per l’intero stivale italico, e poi eravamo diventati quasi una “coppia di fatto”, per diversi anni quasi inseparabili. Sempre insieme, nel tempo libero e al lavoro, stesse amicizie, gli stessi ritmi quotidiani, le medesime passioni politiche e, in qualche occasione, anche quelle amorose (ma quello è un altro discorso). Con Emanuele – anche lui collegnese – ci legava una militanza politica nata tra i giovani della Fgci, ma nonostante fosse il primo viaggio insieme filò tutto liscio. Forse anche merito di quella capacità alla mediazione appresa durante le riunioni nelle stanze della Casa del Popolo.

In quel lungo periodo la militanza nel Pci costituiva una parte considerevole delle nostre attività quotidiane. Proprio quell’anno, tra agosto e settembre, si sarebbe tenuta a Torino, nell’area di “Italia ’61” la “Festa Nazionale de l’Unità” alla quale avrei dedicato una settimana delle mie ferie, proprio al termine del viaggio in Urss. Ricordo che in quella occasione, durante una pausa di “lavoro” venne ad intervistarci un giornalista di “Repubblica” per sapere cosa ne pensasse la base del “piccì” sugli avvenimenti che stavano scuotendo la Polonia. Qualche giorno dopo vedemmo il lungo articolo con le dichiarazioni del popolo comunista a firma di Giampaolo Pansa. Era la seconda volta che ebbi l’occasione di incrociarlo. La prima fu nel novembre 1977 dopo l’assassinio del vice-direttore de “La Stampa” Carlo Casalegno da parte delle Brigate Rosse. Piero Fassino, allora responsabile fabbriche del Pci torinese, organizzò al Circolo Aurora di Collegno una riunione dei segretari di sezione e di fabbrica del Pci della nostra zona per parlare dell’atteggiamento della base comunista verso il terrorismo, alla presenza (a nostra insaputa) dell’inviato di Repubblica; io dissi la mia e cioè che tutta l’azione dei brigatisti era rivolta contro la linea del Pci e che la teoria che questi assassini fossero in realtà fascisti era sbagliata e che bisognava ammettere trattarsi di gente proveniente dalla “nostra” storia. Qualche giorno dopo la terza pagina di Repubblica – interamente dedicata alla giornata torinese di Pansa – riportava anche la sostanza del mio intervento unitamente alla mia descrizione fisica e cioè quella di un giovanotto con capelli e baffi spioventi nerissimi.

Nel 1981 il mio privato andava così così, tra alti e bassi. Avevo già 26 anni e sentivo di non aver combinato un granchè: abitavo ancora con i miei, i non pochi flirt di quel periodo erano destinati a non lasciar traccia nella mia vita e il nuovo compito che mi venne affidato al lavoro (segretario amministrativo di uno dei 6 “consigli circoscrizionali”) era un punto interrogativo con la “i” maiuscola.

Di quel periodo solo un avvenimento entrò prepotentemente nella mia vita. Nel mese di marzo il Sindaco chiese al suo staff di individuare un volontario per andare ad aiutare i colleghi dipendenti comunali di San Gregorio Magno, un paese del salernitano colpito pochi mesi prima dal terremoto in Irpinia. Con quel piccolo comune (28 le sue vittime) i comuni di Collegno e Grugliasco, firmarono un patto di gemellaggio che prevedeva l’invio di un prefabbricato adibito a scuola compreso di adeguati arredi e che permise ai bambini di riprendere un po di normalità. Quindi l’invio di assistenti sociali, vigili urbani e qualche dipendente in aiuto al loro ufficio tecnico per il censimento dei danni. Io mi offrii con entusiasmo. Ci rimasi 10-12 giorni e a parte la mia presenza lavorativa più simbolica che altro, si dimostrò un’ esperienza che mi riportò un po’ alla realtà delle cose. Mettere cioè in fila i valori di ciò che avevamo, l’importanza delle cose e delle persone, anche grazie all’amicizia che mi legò ad alcuni ragazzi e ragazze del luogo. Dormivo in una roulotte, mangiavo in quello che restava di una trattoria, lavoravo in un prefabbricato, alla sera ricevevo inviti a cena da parte di colleghi e amici conosciuti tra le vie ancora piene di macerie. Gente semplice che offriva soprattutto il proprio cuore, giovani divisi tra il desiderio di restare e la possibilità di cogliere la terribile occasione del terremoto per andarsene, cambiare vita, girare pagina definitivamente. Con diversi di loro rimasi in contatto per un po di tempo e le loro scelte si rivelarono equamente distribuite tra chi rimase e chi se ne andò.

Ma torniamo al viaggio. Organizzato nei minimi particolari. In URSS ci potevi andare, ma c’erano dei vincoli ben precisi. Indicare il giorno di entrata ed uscita dal territorio sovietico oltre a definire precisamente l’itinerario con date e luoghi precisi dei pernottamenti che dovevano essere pagati anticipatamente (insieme ai coupon della benzina) in valuta occidentale. L’ Unione Sovietica era ancora un paese molto chiuso al mondo, con a capo Leonid Brezhnev il capo incontrastato di un regime che di li a poco sarebbe crollato facendo emergere tutta la fragilità su cui poggiava. Teniamo inoltre conto che in quel periodo i rapporti tra le due potenze erano ai minimi termini e l’invasione dell’Afghanistan da parte dei sovietici non aiutava certamente al dialogo.

Decidemmo il percorso: Trieste, poche ore di territorio jugoslavo (ora Slovenja), entrata in Ungheria, Lago Balaton, Budapest, quindi l’ Urss con prima tappa a L’Vov, poi a Kiev, da li in aereo A/R a Mosca, in successione dall’attuale capitale dell’Ucraina a Odessa sul Mar Nero. Uscita dall’Urss percorrendo i confini che ora dividono l’Ucraina dalla Moldavia per arrivare in Romania da attraversare in giornata e approdare sulle “spiagge dorate” della Bulgaria a Varna sul Mar Nero, da li a Sofia, quindi Grecia! Infine la Jugoslavia. Poi Venezia e un po’ di Veneto a salutare parenti e amici. Il tutto in poco più di un mese.

Oggi libri e trasmissioni televisive parlano di viaggi, taluni avventurosi, in bici, o con la moto, a piedi a scoprire pezzi di mondo. Io stesso negli anni novanta iniziai a spingermi oltre l’Europa. Ma allora nella parte est del vecchio continente ci si recava quasi esclusivamente con i viaggi organizzati. Quel viaggio ci intimoriva ed elettrizzava allo stesso momento, nel cuore del comunismo che una parte dell’occidente riteneva essere il paradiso e l’altra l’inferno, una sorta di “’impero del male”, come lo definì in quegli anni il presidente americano Ronald Reagan. Insomma, paradiso o inferno che fosse, quelle terre erano li ad attenderci.

Mentre nella notte del primo agosto la rete televisiva MTV (a noi e ad altre centinaia di milioni di esseri umani allora sconosciuta) iniziava la messa in onda delle proprie trasmissioni, noi partivamo da Collegno alla volta di Mosca a bordo della Renault 14 di Emanuele. Alle 9.45 avevamo già superato la frontiera di Fernetici in Jugoslavia e cinque ore dopo quella ungherese. Alle 16 del 2 agosto piantavamo la tenda a Siofok, sul Lago Balaton, nel medesimo campeggio in cui 3 anni prima feci tappa in occasione del mio viaggio in Polonia e dove ritrovai due ragazzi di Palestrina, sempre a caccia di “fauna” locale.

Giusto il tempo di bagnarsi nella calda e semistagnante acqua del “mare ungherese” e proseguimmo per Budapest dove, anche lì, condussi la truppa a piantare la nostra “Taormina – 3 posti” al “Romai Camping” pure questo conosciuto tre anni prima. Visita ai luoghi deputati della bella capitale magiara, la collina di Buda con il suo Bastione dei Pescatori da cui si ha una panoramica di Pest, l’altra parte della città aldilà del Danubio, con il magnifico Palazzo del Parlamento. Ricevemmo anche una fregatura nel cambio a mercato nero sulle scalinate della cattedrale di St.Istvan (Santo Stefano) da parte di un ragazzo jugoslavo. Uno contro tre e nonostante la nostra attenzione riuscì a gabbarci. Che babbioni! Forse perché ci ero già stato, ma vissi quella parentesi nella bella Budapest come fosse solo ed esclusivamente una tappa, prima della grande meta. Ripartimmo e decidemmo di fermarci a visitare la cittadina di Sarospatak, gemellata con Collegno per via della residenza per diversi anni nella nostra città di Lajos Kossuth, amico di Garibaldi ed eroe nazionale ungherese in virtù della sua lotta per l’indipendenza dall’Austria. Andammo in Comune e a fatica (la lingua magiara non aiuta) spiegammo la nostra provenienza. Fummo ricevuti dal Sindaco il quale, oltre a intrattenersi con noi e a offrirci bibite fresche ci comunicò che non avremmo dovuto preoccuparci per il pagamento del campeggio, dove peraltro ci eravamo già sistemati, e che avremmo trascorso gratuitamente la serata nelle piscine di acqua termale, vero e proprio vanto di quella zona del vecchio continente.

Il giorno dopo, il 7 agosto, scoprimmo come fosse particolare l’attraversamento della frontiera sovietica situata ad una quarantina di km. da Sarospatak. La nostra Renault venne letteralmente spogliata (scaricati e aperti i nostri bagagli dai “compagni doganieri” che sfilarono dall’abitacolo il sedile posteriore, alcuni pezzi dell’auto, persino il filtro dell’aria alla ricerca di qualcosa che ovviamente non esisteva). Il loro capo trovò però il modo per fregarci una decina di cassette musicali contenenti il meglio della musica rock e pop italiana, inglese ed americana. Oddio, non fu esattamente una rapina in quanto il funzionario (che parlava perfettamente l’italiano) ci propose “cortesemente”  uno scambio alla pari: la nostra musica per quella folkloristica della tradizione russa. Ci guardammo in faccia, ma guardammo soprattutto la nostra roba sparsa per terra, l’auto semisvaligiata dei propri elementi e…accettammo con “entusiasmo”.

Dopo due ore entrammo nella patria dei lavoratori. Il mio primo pensiero fu per mio padre, comunista e partigiano, che ogni giorno non perdeva la lettura de l’Unità e che gli si illuminavano gli occhi quando si parlava dell’Unione Sovietica. La visitò anche. Era il 1985, a pochi giorni dal congresso nel quale Gorbaciov strinse i tempi per la democratizzazione del paese.

Il nostro obiettivo era L’Vov (Leopoli) dove avevamo prenotato un bungalow. Per arrivarci percorremmo circa 300 km. su una strada asfaltata (diciamo così) nella quale le buche non erano una rarità. Tante foreste, tanta campagna, una casa qua e la, carretti trainati da cavalli e contadine avviate al lavoro su vecchi camion. Altre donne ai margini della strada a vendere i loro prodotti, e poi auto e qualche pullman in panne ad attendere i relativi soccorsi.

Divertente una situazione capitataci durante il tragitto. Visto che il percorso era quello previsto dalla “visa”, era vietato sbagliare strada o a sceglierne una qualsiasi. Ma in direzione Kiev ci accorgemmo di essere a corto di benzina; deviammo quindi per qualche centinaio di metri verso un distributore; una volta ripresa la strada maestra un poliziotto  motorizzato ci corse dietro ordinando di fermarci. “Cavolo, potevamo fare benzina più in là” “Ne avevamo troppo poca” “Adesso sono cavoli amari” “Ma vaffa…che sfiga”…insomma in pochi secondi snocciolammo una serie di imprecazioni da “fascia protetta”. Avvicinatosi alla porta anteriore il poliziotto saluta come fanno tutti i poliziotti del mondo, poi si china per guardarci in faccia chiedendoci la nazionalità; alla nostra risposta annuisce alla nostra risposta. Poi fa un passo indietro a squadrare la carrozzeria (ma i documenti niente? pensiamo), quindi domanda se l’auto è italiana? no, francese risponde con fermezza Emanuele. Il cosacco mangiatore di bambini tocca, accarezzandoli,  i “copri-finestrini” di plastica di moda a quel tempo;  i suoi muscoli  facciali  esprimono stupore, noi ci chiediamo cosa stia succedendo, ci fregherà l’auto, lui fa un passo indietro (ora ci chiederà di uscire a mani alzate…andiamo troppo al cinema), invece Ivan il terribile ci saluta ed esclama con ammirazione “SPAZIAL !!!” Insomma…voleva solo godersi una visione privata di quell’auto mai vista prima. Tirammo un sospiro di sollievo e ci fu uno scambio di sorrisi che disse più di un trattato internazionale sull’empatia. Più che l’orso sovietico che si abbeverava alla fontana del Vaticano il nostro poliziotto somigliava al più pacioso vigile urbano di Napoli. Lo vedemmo rimpicciolirsi sempre di più fino a sparire con la sua moto, mentre noi riprendevamo il nostro viaggio verso il primo pernottamento in terra sovietica.

A tarda sera arrivammo a destinazione e rimanemmo positivamente sorpresi per la bellezza del bungalow e delle ceninaia di betulle che ornavano quel campeggio.  Pareca di essere in un romanzo di Tolstoj. All’indomani partenza per Kiev – poco più di 500 chilometri – che, per problemi di tempo visitammo distrattamente e di questo me ne rammarico tuttora. Lasciammo l’auto nel campeggio a pochi chilometri dal centro della città e prendemmo l’aereo per la capitale sovietica dove rimanemmo tre giorni.

Il Tupolev che ci portò a Mosca era per noi il primo aereo, il primo volo in assoluto, ci parve bello e confortevole e scambiammo per galanteria anche l’offerta di un cetriolino e un bicchiere d’acqua! Fummo inoltre sorpresi per essere stati chiamati per nome dalla cabina di comando affinché uscissimo per primi dall’aereo, e rimanemmo esterefatti nel vedere che ad attenderci appena fuori dall’ aeroporto c’era una limousine nera…per noi tre (?!) vestiti molto informalmente con i sandali ai piedi e una sola sacca per contenere i nostri pochi indumenti. E mentre ci attendevamo un albergo normale, di poche pretese quali erano in effetti le nostre, ad accoglierci c’era l’Hotel Ukraina sicuramente all’altezza della limousine. Enorme, con tappeti rossi, grandi lampadari, un mucchio di personale. Il facchino a portarci la misera sacca. Una volta arrivati nella stanza ricevemmo subito le attenzioni di qualche ragazza che, con la molto probabile complicità del personale della reception, ci proposero scambi amorosi….purtroppo a pagamento. Rifiutammo cortesemente e uscimmo alla scoperta della capitale del socialismo reale!

Alle ore 12 dell’11 agosto (la precisione in questo e altri casi è mutuata dagli appunti di viaggio di Sergio) eravamo in coda per visitare il Mausoleo di Lenin dove – da buoni comunisti – ci colse una certa commozione nel trovarci al cospetto del capo (ehm…della salma) della Rivoluzione bolscevica.

Furono giornate intense e i nostri occhi erano costantemente alla ricerca di qualsiasi cosa, qualsiasi forma di testimonianza da consegnare ai posteri. I ricordi di quei giorni sono un pò svaniti, la memoria mi riporta alla bella e ordinata metropolitana piena di stucchi e di mosaici. I magazzini Gum, pieni di gente in coda a negozi con scaffali semivuoti e per contro un numero esorbitante di commesse buone soltanto a far spazientire gli avventori. L’ampiezza delle arterie stradali cozzava con lo scarso numero di auto. Una cena nel nostro hotel con un gruppo di ragazze che anch’esse ci proposero il sesso a pagamento (che rifiutammo anche in quell’occasione). Emanuele ricevette per strada persino una proposta di matrimonio.

Un giorno mi presi una vacanza dai miei due compagni e mi persi tra le strade moscovite e i tunnel della metro, cercando contatti con i passanti senza ottenere grande collaborazione, anche perché il cirillico e la lingua non erano certo d’aiuto. Rimanendo alla “questione femminile” avemmo la conferma della poca avvenenza delle donne sovietiche, da noi (in Italia) descritte al pari delle matrioske. Oggi io e Sergio ci chiediamo dove fossero allora le stupende ragazze russe che oggi vediamo in giro per le nostre città e sulle copertine dei magazine! Mah.

Ancora vaghi ricordi mi consegnano bimbe con grandi fiocchi a trattenere bionde capigliature, giovani che grazie a qualche jeans e t-shirt comprati al mercato nero cercavano di scimmiottare i loro coetanei occidentali, le tante borse della spesa che solo successivamente e attraverso le corrispondenze di Giulietto Chiesa su l’Unità, seppi servire all’anziana, all’impiegato, all’operaio o alla casalinga…insomma a tutti, per contenere l’acquisto di qualsiasi prodotto alimentare presente nei negozi: quel che c’era c’era e andava comprato senza esitazione per garantirsi la varietà del cibo, la cui disponibilità non era sempre garantita e soprattutto non programmata.

Ritornammo a Kiev e con l’auto attraversammo da nord a sud quella che oggi è la nazione ucraina. Anche qui circa 600 km. A Odessa avevamo prenotato un bungalow nell’unico campeggio della città, vicino ad una spiaggia con “bella vista” sul porto. Anche in Urss era tempo di vacanze e ci sembrava interessante vedere come se la spassavano i lavoratori sovietici. La spiaggia era stracolma come le nostre nei giorni di punta, i bambini si divertivano e come i nostri giocavano allegri nell’acqua e zampettavano sulla spiaggia, anche li intere famiglie stavano sotto gli ombrelloni a leggere, parlare e mangiare,  anche li i giovani si mettevano in mostra a ragazze simil-timide; nel campeggio tavolini da pic-nic imbanditi con famiglie festose e rilassate. Il tutto senza eccessi ed estrema educazione, anche se qualche amante della vodka non mancava mai. Nei ristoranti le cene erano allietate da orchestrine e gli avventori non mancavano di lasciare momentaneamente i loro piatti per lanciarsi nei balli.
Conoscemmo due ragazze, e con loro girammo la città, in particolare ci soffermammo nella famosa scalinata dove venne girata la scena della carrozzina nel celebre film “La corazzata Potemkin” tanto amata dal rag. Fantozzi.

Con una di loro, Magdalena, una ragazza ungherese residente in Unione Sovietica per studiare da dentista, trascorsi dei momenti intensi nonostante la difficoltà della lingua. Una ragazza dolce e con due grandi occhi azzurri. Incredibilmente mi ha ritrovato su Facebook 3-4 anni fa…è stata un’emozione. Vive e lavora ancora in Ucraina e mi ha bacchettato per promesse da marinaio che le avrei fatto. Ricordo ancora la mattina della nostra partenza, il nostro abbraccio e le sue lacrime. E’ stata certo una passione estiva, ma forse avrebbe meritato qualche stagione in più.

Conoscemmo anche dei ragazzi russi, uno di questi doveva partire per l’Afghanistan di li a poco. Erano di un un paese vicino a Odessa e ci conoscemmo grazie ad una comune passione: il calcio. Ci informarono che la domenica la locale squadra di Odessa avrebbe ospitato la Dinamo Kiev del grande Oleg Blochin. Detto fatto. La domenica eravamo tutti quanti allo stadio a tifare per i “poveri” locali in ossequio ai nostri amici e ad assistere ai gol di Blochin. Tre a uno il risultato finale a favore degli ospiti.

Ma fu anche l’occasione per scrutare i volti e i comportamenti dei tifosi. Niente cori, non ricordo nemmeno una bandiera, neppure un vessillo di entrambe le squadre; il pubblico non gridava, mugugnava, forse coscienti della disparità con i più quotati giocatori della Dinamo che alla fine vinsero il campionato sovietico. I più agitati in curva risultammo essere noi tre, sempre a contestare le decisioni arbitrali, a sbuffare per l’imprecisione dei “nostri” e a censurare i comportamenti degli altri. Fu una bella giornata, trascorsa con ragazzi semplici e con i quali legammo anche in campeggio. Quando nei mesi e negli anni successivi arrivarono sempre più diffusamente le notizie della guerra in Afghanistan e a quello che successe e succede tuttora nei territori dell’ex Unione Sovietica, non potevo e non posso non pensare a…purtroppo non ricordo più il suo nome.

Il 18 agosto, dopo undici giorni, lasciavamo l’Unione Sovietica coscienti che ciò che avevamo visto e sentito era del tutto insufficiente a dare giudizi incontrovertibili. Il tempo era stato poco, il punto di vista era quello del turista, di quelli magari un po’ più interessati alla conoscenza del paese, ma pur sempre turisti si era. Negli anni ho imparato a non dar troppo peso a giudizi tranchant su popoli o paesi visitati per 10 o 30 giorni, in viaggi organizzati o fai da te. Quel che mi rimase dentro fu in grandissima sintesi ciò che risposi in poche parole ad un compagno una volta tornato a casa e che riporto alla fine del racconto. Certo che il dissolvimento dell’Unione Sovietica ha fatto emergere le grandi ingiustizie che quel regime ha creato e mantenuto in quei decenni, ma la storia racconterà e racconta dei troppi poveri che la crescita ex sovietica ha lasciato indietro, oggi più poveri di allora. E, mi permetto di dire, quanta insicurezza in più ha creato nel mondo la scomparsa della potenza sovietica.

Percorremmo strade e luoghi tra il confine che ora separa l’Ucraina e la Repubblica Moldava ed entrammo in Romania. Decidemmo seduta stante di attraversarla in 24 ore per non pagare la tassa di soggiorno o come si chiama e ci riuscimmo nonostante la ritorsione di uno str…o di doganiere rumeno  (consistente nel lentissimo controllo dei documenti) per non avergli “regalato” le poche cassette musicali salvate alla frontiera con l’Ungheria.

Ce la facemmo nonostante una foratura che comunque ci portò a conoscere persone che in un povero villaggio risultarono disponibilissime ad aiutarci; e ce la facemmo a dispetto del pericolo costituito dal buio pesto della principale strada che da nord a sud ci avrebbe portato alla frontiera bulgara. Due-tre giorni di mare sulle “spiagge dorate” vicino a Varna, che avevo già frequentato 4 anni prima, il tempo di conoscere una bella brunetta, quindi a Sofia. Il tempo di farci spennare dal solito jugoslavo nel cambio a mercato nero (ci sarà pure un motivo della mia antipatia verso gli jugoslavi!) e ritorno nella civiltà occidentale varcando il confine con la Grecia. Era il 23 di agosto e avemmo la fortuna di trascorrere gli ultimi giorni della vacanza in un bellissimo luogo di mare, a Possidi vicino a Cassandra, in una delle tre dita della Penisola Calcidica. Campeggio a pochi metri dalla spiaggia, poche persone e mare stupendo. Duro il momento in cui dovemmo lasciare quel pezzo di paradiso (quello si che lo era) che negli anni ho sempre ricordato con tanto piacere. Stupenda una notte in riva al mare, solo noi tre ed un cielo stupendamente stellato a raccontarci i nostri sogni e le nostre speranze per il futuro.

Per il ritorno avevamo programmato di “circumnavigare” l’Albania attraverso la Macedonia, il Montenegro, il Kossovo, cosa che avevo già sperimentato con Gabriele nell’estate del ’77. Non fu possibile. Era una notte buia e tempestosa…proprio così, era ormai notte fonda e ci stavamo accingendo a percorrere la strada che ci avrebbe portato in quei luoghi allora semisconosciuti alla comunità turistica internazionale, quando alcuni militari si materializzarono di fronte a noi dicendoci di tornare indietro e prendere l’Autostrada per Belgrado Zagabria. Pensando ad un incidente stradale rispondemmo che avremmo pazientemente atteso che la viabilità tornasse normale (naturalmente con il linguaggio dei gesti), ma un soldato ci disse che no, non si trattava di un incidente. La sua fu una perentoria risposta: PROBLEMI!
Il problema lo scoprimmo anni dopo quando apprendemmo che proprio quell’anno continuarono (noi occidentali non sapevamo nemmeno fossero mai iniziati) in quella regione scontri etnici che provocarono l’abbandono delle proprie case di circa 20.000 di serbi.

Prendemmo fiato e tornammo sui nostri passi e una volta imboccata la “mitica” Autoput non ci fermammo fino alla frontiera italiana. Il Veneto fu luogo di ospitalità dai parenti di Emanuele a Piove di Sacco (PD) e dai miei a Runzi (frazione del comune di Bagnolo di Po). Visite a Padova dove accesi pure un cero a Sant’Antonio e a Venezia.
Alla barriera della tangenziale di Torino, dovemmo scostarci dal casello in quanto ci mancavano 50 lire (cinquanta!) per pagare la tangenziale e che trovammo fortunatamente dopo lunghe ricerche.

Il ritorno fu costellato da tante domande sulla Russia dai tanti compagni ed amici che sapevano del nostro viaggio.

Ogni tanto mi piace ricordare non senza commozione, l’incontro che, dopo il mio ritorno a casa, ebbi con un vecchio compagno pugliese di Collegno. Si chiamava Falcone, tutti lo chiamavamo per cognome. Ebbene, quando mi incontrò mi domandò con sperticata fiducia: com’è la Russia? Dopo alcuni secondi di pausa gli risposi con un tono a metà tra il deciso e l’imbarazzato “Caro compagno, mi spiace ma devo ammettere che secondo me un lavoratore sta meglio qui in Italia che non là!” Non mi rivolse più la parola fino al periodo in cui cadde il Muro di Berlino quando, in occasione di una manifestazione, mi fermò per dirmi in un modo solenne “Drappella, solo tu mi hai detto la verità”. Mi emoziona ancora ricordare quell’episodio e, dal punto di vista umano e politico, non nascondo un certo orgoglio per aver trovato il coraggio di non mentirgli.

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